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Marco Rossi, dal Filadelfia alla lotta scudetto con la squadra di Puskas

Non c’è “solo” Antonio Conte a vincere all’estero. In Ungheria lotta per il titolo Marco Rossi, cuore granata e un destino che lo ha portato sulla panchina del primo club di Ferencz Puskas

Dopo gli inizi da professionista col Toro, la sua carriera l’ha portata lontano da Torino da molti anni. Qual è il suo rapporto con la città?

Sono andato via da Torino a 19 anni. Ora ne ho 52, e ho vissuto in tante città d’Italia, e del mondo, soprattutto per lavoro. A Torino vive mia madre e i miei fratelli, oltre ai miei amici d’infanzia. Nonostante tutto, il legame con la città e con il mio paese, Druento, è sempre molto forte. Quando posso ci torno più che volentieri.

L’anno scorso Ranieri, prima ancora Mancini e Ancelotti, ora anche Conte: gli allenatori italiani sono sempre più richiesti dai club esteri. E sempre più vincenti. Eppure il fatto stesso che l’allenatore venga chiamato "mister" rivela che storicamente eravamo noi a importare tecnici. Che cosa è cambiato, anzi migliorato nel modo di fare calcio degli allenatori italiani?

Penso che, in genere, gli allenatori italiani siano tra i più preparati al mondo, e non solo sotto il profilo tattico. I motivi sono diversi, ma bisogna dar merito all’attività e alla scuola del centro tecnico dì Coverciano. Negli ultimi anni poi si è cominciato a pensare che il Calcio (con la c maiuscola) non si gioca solo in Italia, ed ecco che i più bravi hanno deciso di accettare le offerte della Premier, della Bundesliga e della Liga.

A differenza degli allenatori, non ci sono molti esempi di calciatori italiani che all’estero si sono affermati ai massimi livelli. Secondo lei da cosa deriva questa difficoltà dei nostri giocatori nell’adattarsi a campionati stranieri?

Gli allenatori, a differenza dei giocatori, sono ovviamente più maturi e quindi, rispetto a questi ultimi, capiscono maggiormente la necessità di dover entrare in casa d’altri in punta di piedi, con tatto, capendo – o cercando di capire – la cultura dei propri ospiti. Spesso i giocatori pensano che siano gli altri a doversi adeguare a loro e non viceversa, per il semplice fatto che vengono dall’Italia. Non è così.

L’Ungheria è una delle patrie del calcio europeo: che effetto le fa insegnare calcio nel Paese di Puskas?

Io devo ringraziare l’Ungheria (l’Honvéd, in particolare) che mi ha dato la possibilità di lavorare nella massima serie. Se così non fosse stato, probabilmente oggi farei l’assicuratore o il rappresentante (tanto di cappello!). Fin da subito ho percepito grande rispetto e stima da parte di tutti: tifosi e non solo quelli dell’Honvéd, stampa e addetti ai lavori. Il fatto, poi, di essere l’allenatore della squadra che fu di Ferencz Puskas, mi riempie di orgoglio da un lato e di commozione dall’altro. Sono sincero. Mio nonno, infatti, era un tifoso del Grande Torino e dell’Honvéd e quando ero poco più che un bambino, nell’accompagnarmi agli allenamenti, mi parlava spesso di Puskas e Valentino Mazzola. Io sono un professionista e come tale destinato a cambiare, piò o meno spesso, colori, ma al di là di tutto il Toro e l’Honvéd avranno sempre un posto speciale nel mio cuore.

Budapest e Torino: che cosa hanno in comune queste due città?

Budapest e Torino sono attraversate da Danubio e Po. Sono sempre stato affascinato dai ponti di Torino, figuriamoci da quelli di Budapest! In inverno i colori di Budapest, in certi giorni, mi ricordano quelli di Torino (e sale la nostalgia della mia bellissima città). Stesso discorso per i tantissimi palazzi storici che per certi versi sono molto simili nelle due città.

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