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Recensioni o diffamazione: fino a che punto si può criticare un locale o un'attività sui social

Una sentenza del Tribunale di Torino traccia il confine

Tutti diamo un giudizio. Quando mangiamo al ristorante o acquistiamo un bene o un prodotto che abbiamo a lungo desiderato inevitabilmente siamo portati a dare una valutazione di quanto questo abbia soddisfatto le nostre aspettative.  Con l’arrivo dei social, però, le critiche si diffondono sempre di più.  Pensando al campo della ristorazione il giudizio espresso da chi assapora un piatto chiama inevitabilmente in causa chi questo prodotto l’ha preparato e servito. 

Le attività recensite non sempre hanno giudizi positivi, spesso raccolgono anche delle vere e proprie stroncature.
Ma quando la critica negativa diventa diffamazione? Chi ha scritto il giudizio su questo o quel locale che responsabilità ha? Insomma fin dove ci si può spingere senza finire nei guai? 

Questo vale per tutte le attività commerciali. Chi ritiene di essere stato fregato può dire la sua? Basta mantenere toni civili e riferirsi esclusivamente alla propria esperienza per non incappare nell'accusa di diffamazione? Pare di sì. Così almeno ha deciso il tribunale di Torino.

Tribunale Torino, la sentenza sulle recensioni

Il Tribunale di Torino, con sentenza pubblicata lo scorso 19 gennaio, ha tracciato i confini tra diritto di critica e diffamazione nei casi di pagine pubbliche dove i partecipanti si scambiano consigli e opinioni. Per il giudice questi spazi hanno una fondamentale funzione economica, perché evitano pubblicità ingannevoli. Se si parte dalla narrazione di esperienze vissute, anche riportando delle critiche, ma con linguaggio corretto e non offensivo, svolgono una "opera sicuramente meritoria", che va tutelata e protetta, perché oggi un’economia deve basarsi su "comportamenti commerciali trasparenti, adamantini, corretti e in grado di generare un circolo virtuoso di concorrenza leale, veramente posta al servizio del cliente". 

La sentenza è arrivata dopo che una concessionaria di auto e moto ha citato in giudizio l’amministratore di una pagina Facebook e della relativa community online dopo che un cliente, in un post, raccontava di essersi accorto, solo dopo l’acquisto, che l’auto era gravemente incidentata e che protestare vie email non aveva portato a una soluzione: il post è diventato virale. Da qui la causa della concessionaria che ha trovato un accordo con l’autore del post, ma in sede sia penale che civile proseguiva l’azione nei confronti dell’amministratore della pagina Facebook.

Il giudice civile, sulla stessa scia del decreto di archiviazione del gip, ha confermato che l’utilizzo di espressioni ironiche e goliardiche è tollerato se si rappresentano fatti realmente accaduti e riportati con frasi che non trasmodano nell’invettiva. Ma c'è di più: "Il fatto di pubblicare le disavventure, per usare un eufemismo, subite dai clienti di un certo esercizio commerciale costituisce opera meritoria (…) per scongiurare che altri malcapitati soggetti abbiano a subire gli effetti di comportamenti che possono ledere il patrimonio e i sudati risparmi di acquirenti e clienti. In caso contrario - continua il giudice - si finirebbe per zittire i whisteblowers, la cui funzione sociale non va invece trascurata". Per il tribunale poi non si può pretendere che l’amministratore di una pagina social la controlli 24 ore al giorno perché la sua responsabilità civile, a differenza di quella del direttore di un giornale, sorge soltanto dal momento in cui viene messo formalmente a conoscenza dall’interessato della pubblicazione del contenuto "asseritamente diffamatorio".
 

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