"Quello che ho capito di De André", di e con Federico Dragogna all'Off Topic
“Quello che ho capito di De André” non è un tributo a De André, né una lezione o una commemorazione: è davvero, semplicemente, quello che ho capito di lui e delle sue canzoni. È qualcosa che ho immaginato e scritto quando mi sono accorto che, forse, di Fabrizio De André - twittato da politici d'ogni sorta e bandiera, incensato nei salotti, nei musei e persino nelle scuole - ero io a non averci capito qualcosa. Da ragazzo avevo scelto le sue parole perché mi sembravano le più coraggiose e le più pericolose, ora che le ritrovo ovunque mi sono chiesto se è il nostro Paese che ha finalmente trovato il coraggio o se sono ancora bombe a cui qualcuno ha fatto un giardino intorno - così che da fuori, anno dopo anno, si finisca per vedere solo il giardino.
Non è un concerto anche se della musica c'è, non è un reading anche se ho dei fogli davanti: di sicuro c'è la mia voce, la sua e quella del tempo in cui tutti siamo immersi. Ed è qualcosa che ho deciso di fare in posti che erano interessati a questo discorso e che mi hanno chiamato, in posti in cui anche lui, credo, sarebbe venuto volentieri.
Fabrizio De André è per l’Italia un “poeta”: una bomba disinnescata dalla teca che molti si sono affrettati a costruirgli attorno, e che permette oggi a un qualsiasi politicante di citarlo e appropriarsene anche solo per un tweet. Proprio in tempi in cui un’ombra sul curriculum può distruggerti la vita, si sceglie un anarchico tesserato, bevitore accanito, fumatore accanito, figlio di papà e bestemmiatore come Maestro: siamo un Paese di ribelli o un rehab per ribelli?
Di certo, tutto ciò che ha scritto e tutto ciò che scelse di vivere hanno ancora un’energia che nessun tweet o discorso ufficiale può sopprimere. Di questa energia, anche quando sporca e radioattiva, ne ho approfittato per anni - e ho deciso di raccontarla in un breve testo che parla di me, di lui e della libertà di scegliere la strada sbagliata.